Rione Sanità, abbandonati dallo Stato

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E’ stata una protesta vibrante che per un niente poteva trasformarsi in una vera e propria tragedia. Manolo Benur Misso e sua sorella Celeste, incensurati nipoti Giuseppe, l’ex capo clan che dominava il rione Sanità e l’intera città di Napoli  oggi collaboratore di giustizia hanno minacciato di darsi fuoco.

Cosparsi di benzina e ‘armati’ di accendino hanno tenuto in scacco per molte ore forze dell’ordine, vigili del fuoco, ed esponenti della Curia arcivescovile di Napoli. E’ stato Manolo ad inscenare la clamorosa protesta nei pressi dell’edificio dove dimora il cardinale di Napoli Crescenzio Sepe.

I due nipoti Misso vivono in una vicina abitazione a Largo Donnaregina. Da un paio di anni non sono più protetti dallo Stato e sono stati costretti a ritornare a Napoli dopo essere vissuti in una località segreta per timori di ritorsioni da parte della camorra. E’ così cominciato il loro inferno quotidiano. Assediati, intimiditi e minacciati.

Una corda appesa al collo che si stringe con il passare dei giorni. Lo Stato, quello con la ‘s’ maiuscola, dietro carte bollate, leggi inefficaci e rapporti investigativi poco aderenti con la realtà, li ha praticamente lasciati soli ed esposti a seri pericoli oltreché in uno stato di grave povertà. Sia Manolo che la sorella sono privi di occupazione ed in particolare Celeste ha anche due figli piccoli. Sono in pericolo, tutti lo sanno nel vicolo, prima o poi li ammazzeranno.

Le intimidazioni non sono mancate come quando nel cuore della notte gridarono dalla strada: “Consegnaci tuo fratello…Zapata”, seguono tre colpi di pistola esplosi in rapida successione. Panico, caos e paura con i condomini sul piede di guerra: “Dovete andare via dal palazzo…”.

Celeste Misso ha poco più di 40 anni, è madre e vedova, vive con suo fratello Manolo Benur Misso, più piccolo di lei, entrambi sono figli di Umberto, fratello del più noto Giuseppe Misso (Missi all’anagrafe).

Personaggio di spessore, capo indiscusso di un clan che nel rione Sanità aveva la sua fortezza e tentacoli in tutta la città. La cosca cambia sarà gestita dai nipoti dell’ex boss e da scalpitanti colonnelli.

Tutto si sfascia e scoppia la guerra  Nel 2005 nel granitico clan accade una scissione. C’è un punto di non ritorno della faida. A Porta San Gennaro – il 30 ottobre del 2006 – in un agguato viene ucciso con quattro colpi di pistola – mentre esce da un bar – Vincenzo Prestigiacomo, 33 anni, marito di Celeste Misso.

E’ un escalation di violenza. E’ una guerra senza esclusioni di colpi. Resteranno sul selciato almeno 20 morti. Accade però l’imprevedibile. A distanza di pochi mesi Giuseppe Misso junior, – quello che era considerato il suo erede naturale – e suo fratello Emiliano Zapata Misso si pentono. I due giovani sono i fratelli di Celeste e Manolo Benur. Vuotano il sacco e raccontano con dovizia di particolari i segreti del clan. E’ la svolta investigativa.

Salta il coperchio. Finiranno in cella boss, gregari, luogotenenti e affliati. Riscontri precisi, processi e seguiranno condanne esemplari. E’ un’epoca che si chiude. Il clan Misso è spazzato via dalla geografia criminale. Racconti che diventano prove incontrovertibili. Nel gorgo finiscono anche Celeste e Manolo Benur. In ragione dei legami di parentela, il servizio centrale di protezione accorda una tutela.

Trasferimento in un’altra città, identità false, una casa e un sostentamento. Accade dopo qualche anno che pur restando il pericolo di ritorsioni, il ministero dell’Interno rivede alcune posizioni. Celeste e Manolo Benur Misso rischiano di trovarsi senza più una copertura. Lo zio, l’ex boss, chiede al servizio centrale un’estensione della tutela ai suoi nipoti.

La Commissione però rigetta la richiesta; nessun piano provvisorio di tutela. Celeste e Manolo Benur in data 2 ottobre 2015 ricevono una comunicazione ufficiale dove vengono informati che l’ufficio pur non escludendo la presenza di un rischio concreto perché parenti diretti di Giuseppe Misso junior e Emiliano Zapata Misso revocano la misura speciale di protezione.

Lo Stato li scarica. Abbandonati – in pratica – al loro scontato destino. Esposti a ritorsioni e regolamenti di conti pur non c’entrando nulla direttamente con i clan. Sono obiettivi sensibili, trasversali. Cominciano i guai con una quotidianità fatta di pressioni, minacce e gravi intimidazioni.

“Siete una famiglia di pentiti, vi dobbiamo ammazzare tutti, vi incendieremo vivi a casa”. “Andate via dal quartiere, altrimenti vi ammazziamo”.

Celeste e Manolo Benur presentano denunce, appelli, chiedono di parlare con il cardinale inscenano addirittura una clamorosa protesta davanti alla Procura di Napoli incatenandosi ai cancelli per avere un contatto con qualche magistrato della Dda. Il loro caso diventa un servizio della trasmissione delle ‘Iene’. La ribalta mediatica non li aiuta per niente.

La loro storia non interessa a nessuno. Il Comune di Napoli nicchia sembra che non abbia strumenti per assisterli.

Dalle forze dell’ordine giunge sempre il solito refrain : “Se non vi accade qualcosa di grave non possiamo intervenire e tutelarvi”. Un inferno che costringe Manolo e Celeste con i bimbi a vivere reclusi in casa tra ansia, rabbia e disperazione.

Fino a dieci giorni fa quando Manolo Benur ha tenuto in scacco Largo Donnaregia si è cosparso di benzina e più volte ha minacciato di darsi fuoco.

Non sanno cosa fare. Sono come sospesi. Vivono trattenendo il fiato. Ecco, in apnea. Fantasmi, spettri o meglio morti che camminano. Ora qualcuno tra la Procura di Napoli, il Servizio centrale di protezione, la Commissione centrale,  il ministero dell’Interno, il Comune di Napoli  si assuma la responsabilità della tutela e della sicurezza di queste persone. Non farlo sarebbe grave. Anzi imperdonabile.

Arnaldo Capezzuto

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