Presa diretta. Quel razzismo quotidiano che stringe il cuore
In metro. Di primissima mattina. Vagone sobriamente popolato dall’ umanità operaia. Preferisco stare in piedi, MP3 piantato nelle orecchie. Di fronte a me, seduta, una coppia giovane come tante (di colore e lo specifico perché purtroppo è un dettaglio fondamentale) con un bimbetto nel passeggino.

Sono teneri, scherzano tra loro e sorridono al pargolo, avvolto nella copertina. Si libera un posto vicino a loro e una tizia dal volto arcigno, zaino in spalla, si siede vicino.
Fermata medaglie d’ oro: si libera un posto la fila di fronte. La tipa repentinamente si alza e cambia posto. È un attimo.
Il ragazzo di colore guarda la compagna e alza lo sguardo. Incrocia il mio. Si legge in quegli occhi scuri e limpidi lo sdegno e la mortificazione. Sostengo il suo sguardo e annuisco.

Non tutti sono come quella faccia di caxxo. Che ora è seduta stretta stretta con lo zaino sulle spalle in punta al seggiolino rigida come una mummia, la faccia buia riflette la sua anima. Scherzo col bimbetto e auguro loro la buona giornata prima di scendere.
Mi sono vergognata di appartenere ad un’ umanità che annovera tra i suoi componenti anche quella. Il razzismo è latente, soprattutto nel linguaggio non verbale. In quei segnali che quotidianamente facce di cazzo come quella trasmettono. E’ uno stillicidio continuo.
Ti discriminano per tutto: perché sei nero, perché sei grasso, perché sei vecchio. Nell’ indifferenza generale. Nell’ ignavia del vivere quotidiano. Nell’ accreditarsi migliore di altri.
Monica Capezzuto
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