Certo può avvenire un incendio. Un corto circuito, una scintilla, un guasto di altra natura, insomma un imprevisto qualsiasi. Può accdere, ripeto.
Se cominciano però a bruciare i depositi dove i grossisti cinesi stoccata la loro merce per rifornire i tanti connazionali titolari di negozi di media e grande dimensione allora qualche domanda pur se legittima occorre cominciarla a farsela.
Qualche giorno fa in traversa vicinale Fossitelli, nel quartiere napoletano di Barra è andato in fiamme un grande capannone adibito a deposito di merce cinese.

In pochi minuti, le lingue di fuoco hanno distrutto tutto ciò che incontravano sulla propria strada, il fumo denso e acre ha reso l’aria irrespirabile. Sul posto, allertate dai residenti, sono giunte autobotti dei vigili del fuoco e gazzelle dei carabinieri.
L’area è stata circoscritta e le tute arancioni hanno dovuto lavorare tutta la notte per domare le fiamme.
Per ora non si conoscono le cause all’origine del rogo. Non è neppure chiaro se ci sia un collegamento con il recente incendio di altri capannoni avvenuto nella stessa zona.
Gli abitanti della zona dell’area Est di Napoli cominciano a temere per il troppo inquinamento da diossina e fumi tossici che si liberano nell’aria.

Incendi casuali oppure segnali che ‘qualcuno’ vuole rivolgere ai commercianti a occhi a mandorla per ‘ricontrattare’ accordi e condizioni.
Sembra poco credibile che il volume di affari legati alle attività commerciali dei cinesi non risentano per nulla delle pretese o delle pressioni delle organizzazioni criminali partenopee.
La domanda è brutale ma pertinente: gli imprenditori cinesi pagano la ‘tassa della tranquillità’? C’è da immaginare di si.
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