Chi restituirà ai giovani il tempo sprecato ad odiare? La comunicazione moderna sta fallendo. Fallisce nei suoi tentativi di veicolari messaggi.
Ci sono fin troppi esempi di titoli nella storia recente che vanno da “La morte di un gay”, indecorosamente diffuso sulla stampa e sui social quando fu ucciso il giovane Vincenzo Ruggiero, fino a “Un gigante buono incapace di fare del male”, quando si scrive dell’assassino di Elisa Pomarelli, senza dimenticare l’odio vomitato su un vestito blu di una donna ministro.
Questo accade perché vige una crudele indifferenza rispetto al valore dell’umanità, in contrapposizione alla necessità di accattivare platee di ignoranti. Ben venga che la società civile si ribelli a questo sistema, affinché si plasmi con cura una colonna di rettitudine capace di sorreggere il futuro delle nuove generazioni.

Ragazzi confusi, addestrati a procacciarsi il vuoto, ad ambire alla frivolezza, a leggere ciò che più suscita rabbia, assecondando le disattenzioni imposte dalla superficialità ma mai indotti a riflettere sulle reali conseguenze dell’odio. La crescita di una positiva mentalità diffusa è anche una questione di lessico.
I casi di femminicidio, ad esempio, sono l’emblema di un’emergenza che implora un sostanziale cambiamento culturale sia in riferimento al ruolo delle donne che in riferimento agli assassini tendenzialmente quasi giustificati dal “raptus per amore”, dalla “troppa gelosia” e così via.
Tuttavia si aggredisce per cose serie così come per cose banali e siamo tutti potenziali vittime; il web amplifica queste violenze non tanto perché è assente un codice di condotta univoco ma perché gli odiatori sono culturalmente inconsapevoli di far parte della realtà, nascondendosi dietro uno schermo, rifiutando il pensiero che potrebbero essi stessi, essere frutto di violenze.

Ci si ubriaca di questo siero di crudeltà quando nessuno ci insegna che siamo mortali e che dovremmo tutelare gli altri per il loro e il nostro benessere, viziati ormai dall’idea erronea che si trae più soddisfazione nel fare del male che nel godere di una serenità collettiva. Tocca alla scuola, all’associazionismo, alla sensibilità cittadina e istituzionale farsi carico di un cambiamento di rotta, con tolleranza zero verso chi fomenta un male che in troppi casi porta anche al suicidio.
Ciò che viene sottovalutato è che una società diventa civile quando la comunicazione che si ramifica al suo interno è fedele all’oggettività delle notizie ed è dotata di contenuti capaci di sensibilizzare l’opinione pubblica verso uno scambio reciproco di affettività. Su questa reciprocità sempre più assente, dobbiamo lavorare con velocità. Forse non ci rendiamo realmente conto di quanto tempo abbiamo a disposizione. Ne sprechiamo troppo. La modernità ha una sola parola d’ordine: velocità.
Tutto nella società globale ci ordina di correre, di fagocitare il nostro tempo libero con la banalità del nulla. Siamo la società che ci impone di essere protagonisti, di viaggiare con il 5G ma mai con la fantasia. È possibile osservare il modo con cui viene consumato il tempo per poi tirare le somme, il risultato è disastroso.
È un lavoro che dovremmo fare, tutti. Dovremmo insegnarlo ai bulli, dovrebbero capirlo i prepotenti, dai prevaricatori di ogni giorno fino ai camorristi. Dovrebbe capirlo la politica, quella dell’odio, quella che disarma ogni desiderio di ascolto, di una comprensione che richiede tempo e pazienza. Disprezzare è più facile.
La verità, al di là della retorica, è che abbiamo chiuso innanzitutto i porti della nostra mente. L’assenza di riposo ha dopato il nostro rancore, creando mostri di cui forse dovremmo iniziare ad occuparci.

La comunicazione è diventata banale, interessata ad accattivare platee sconfinate di vittime della falsa modernità, dove i suoi componenti aumentano in modo spropositato la loro convinzione di conoscere la realtà studiandola esclusivamente attraverso una fugace lettura di titoli di articoli, di brevi post, sfuggendo ad ogni qualsiasi forma di approfondimento e analisi.
Non avendo più quella capacità di fermarsi a riflettere, non riusciamo più a riconoscere quanto sia preziosa la nostra realtà; non leggendo, non ascoltando, non imparando, non studiando, non amando, siamo compartecipi di questa immensa corsa fino ad uno stato di consapevolezza raggiunto sempre troppo in ritardo.
La caducità umana dovrebbe insegnarci a prenderci più cura di noi stessi e del resto di questo pianeta malato. Siamo esseri fatti di carne, molto ma molto più deboli di quanto crediamo. Tutta questa corsa frenetica può finire ora. In questo preciso istante.
Soltanto nei secondi precedenti alla fine, forse, ci si renderebbe conto che non ne è valsa la pena operare nel male, seminare zizzania, giudicare con rabbia. È proprio necessario aspettare la morte per capirlo?
Amedeo Zeni
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