HA 25 ANNI, vari precedenti per spaccio ma, a sentire lui, ora è “pulito”. Sono reati vecchi. Ha messo la testa a fare bene. Storie ormai chiuse. Luigi – nome di fantasia, per salvaguardagli l’incolumità – è uscito di prigione.
Ha chiuso i conti con la giustizia. Durante un controllo di polizia racconta della sua nuova attività di tatuatore. Ma Luigi non è un tatuatore come tanti altri, la sua clientela è un po’ “particolare”. Lui lavora per i clan dell’area Nord di Napoli.
Un camorrista deve condividere mode e usanze del clan. Gli scissionisti, chiedono il tatuaggio del kalasnikov, i dilauriani quello della pistola P38.
I clan del rione Sanità, per lo più affiliati ai Misso, si fanno tatuare il mastino con la scritta “Mastiffs”, come il gruppo ultrà azzurro, ma anche immagini sacre. Quella del tatuaggio e della simbologia è una vecchia tradizione camorrista. Segna l’appartenenza ad un gruppo ristretto; un marchio a vita: sono del gruppo, la mia identità è l’identità della cosca.
E’ un’espressione indelebile di vita da camorrista. Come i giovani soldati della Wehrmacht (le forze armate tedesche della II Guerra Mondiale) esibivano sulle fibbie dei loro cinturoni militari il motto “Gott mit uns” cioè “Dio è con noi”, i giovani soldati dei clan,invece, portano, sul corpo, tatuaggi che suggellano il loro legame al clan, esibiscono simboli religiosi, comunicano attraverso gesti eclatanti tipo il bacio in bocca il loro essere affiliati-fratelli.
I camorristi sono esibizionisti, plateali. La pelle “segnata” è, per loro, motivo di orgoglio e di vanto. Il tatoo è status symbol, è il dichiararsi fedeli al gruppo che durerà finché quel corpo avrà vita.
Quasi come fosse un marchio impresso a fuoco, quello che si usava fare nelle antiche sette religiose, il tatuaggio diventa l’ennesima prova, da parte dell’affiliato, del suo incondizionato e sincero fondersi anima e corpo con il clan.
Filomena Indaco
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