L’audio dell’audizione di Paolo Borsellino in Commissione antimafia desecretato e diffuso oggi è un vero cazzotto nello stomaco.
L’inedito è svelato a pochi giorni dall’anniversario – 19 luglio 1992 – della strage di via D’Amelio dove il giudice insieme a cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina trovò la morte anche per mano della mafia.
A distanza di 35 anni da quelle parole e 27 anni dalle stragi non si conosce ancora una verità piena.
Non è stata ritrovata l’agenda rossa del magistrato che portava sempre con se come il computer di Giovanni Falcone. Anni di depistaggi, finti processi e ingiuste condanne, bugie di Stato e doppiogiochismo istituzionale.
Sentire quelle parole pronunciate direttamente da Paolo Borsellino fanno impressione, mettono i brividi. Sembra che il magistrato siciliano parlasse profeticamente per oggi.
Il suo è un richiamo all’impegno, all’attenzione, al senso dello Stato, delle istituzioni, al guardare in faccia il mostro e non cullarsi delle false vittorie e strombazzati successi effimeri.
Le mafie ci sono e continuano ad occupare i gangli dello Stato. Ecco lo Stato che come denuncia Paolo Borsellino davanti ai commissari dell’Antimafia l’8 maggio 1984 non protegge e non fornisce gli strumenti per combattere, lottare contro il fenomeno mafioso.
Complessivamente Borsellino compare davanti all’Antimafia tra il 1984 e il 1991. La prima è a Palermo, la città dei mille morti ammazzati all’anno: eppure non c’erano abbastanza scorte per proteggere i giudici del neonato pool Antimafia.
A raccontarlo ai parlamentari arrivati in Sicilia è lo stesso Borsellino, in quel momento componente del pool creato dal giudice Rocco Chinnici, che era stato ammazzato il 29 luglio del 1983.
“Che senso ha essere accompagnato la mattina per poi essere libero di essere ucciso la sera?” – dice il magistrato –
“Con riferimento al personale ausiliario – dice Borsellino – desidero precisare che non si tratta soltanto dei segretari e dei dattilografi, dei quali dovremmo avere garantita la presenza per tutto l’arco della giornata e non soltanto per la mattinata (perché non lavoriamo soltanto di mattina), ma anche degli autisti giudiziari, perché buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate – come avviene la mattina – perché di pomeriggio è disponibile solo una macchina blindata, che evidentemente non può andare a raccogliere quattro colleghi”.
“Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà utilizzando la mia automobile; però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere, poi, libero di essere ucciso la sera” – conclude l’audizione Paolo Borsellino nel silenzio dei commissari -.
Arnaldo Capezzuto