I social media idiots: Il coronavirus e la droga dei post. Dimmi ciò che pubblichi e ti dirò chi sei

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Sarebbe bello avere il coraggio di dire le cose con semplicità, come ad esempio esplicitare pubblicamente la demenza che affligge i tanti pubblicatori seriali di post in questo periodo.

In questa analisi però, è buona norma non utilizzare toni troppo duri perché l’utente che legge ne potrebbe percepire una ramanzina, una bacchettata violenta da intellettualoidi o peggio ancora una profonda offesa personale! Una cura certosina dei termini da utilizzare per quanto difficile è indispensabile.

D’altronde c’è altro da tenere in considerazione: qual è la differenza tra giudizio e analisi? Chi siamo per etichettare gli altri che decidono di pubblicare cinquemila volte al giorno post stupidi? Cosa è stupido e cosa non lo è? Qual è dunque l’approccio da utilizzare per una valutazione obiettiva?

Andiamo per ordine. Che i social avessero favorito la possibilità di dare viralità anche ai più ignoranti della terra, è stato un dramma della comunicazione moderna già analizzato anni fa ai tempi del buon Umberto Eco, ciò che ora è cambiato con l’esperienza del coronavirus è la crescita esponenziale delle possibilità, più tempo a disposizione e più materiale per pubblicare. Sia chiaro, ci sono anche i cretini che decidono di non postare niente e in quel caso parliamo di “deficienza responsabile”, mentre definiamo “deficienza manifesta” i tanti social media idiots (scritto in inglese sembra più professionale, vero?).

C’è chi si scopre esperto virologo, c’è chi sa esattamente il complotto che sta dietro questa esperienza, c’è addirittura chi studia notizie false per aumentare il panico (giornalisti compresi).

Un lavoro a tempo pieno dove il virus viene involontariamente vissuto come una manna dal cielo per milioni di deficienti che finalmente hanno la possibilità di costruire ad hoc una propria identità salda, “utile”, riconosciuta da like e interazioni, indispensabile per la sopravvivenza dell’umanità.

“Deficienti” è un termine non scientifico e abbiamo già detto che bisogna utilizzare toni di valutazione oggettiva. Proviamo a rettificare sebbene la definizione di deficiente sia “Persona totalmente o parzialmente minorata sul piano intellettuale” e scritta così non sembra poi tanto offensiva per il lettore sensibile.

Il sarcasmo nemmeno aiuta in un’analisi lucida, si rischia di trattare aria fritta, fatto sta che invece le enfatizzazioni delle informazioni pubblicate, gli allarmismi, le considerazioni polemiche inutili generano una reazione a catena che coinvolge molte più persone di quanto crediamo, lasciando cedere taluni dall’intelletto onesto ma più deboli, in una profonda spirale di panico e ansia.

L’ansia non va sottovalutata anche per i tanti bambini o adolescenti che non sono ancora dotati di una formazione psichica sviluppata e che possono interiorizzare stati di angoscia in grado di rivelarsi come fondamenta per condizioni depressive. Ci si lamenta poi del superfluo, la richiesta di restare a casa deve favorire la manifestazione di una presa di coscienza intelligente, matura, seria.

Autorizzati a lamentarsi sono chi nelle case vive situazioni di terrore, come, purtroppo, molte persone vittime di violenza (a tal proposito ricordiamo che in caso di necessità è sempre attivo 24 h su 24, il numero gratuito anti violenza 1522) che, paradossalmente, vivono l’orrore tacendo per il timore di ripercussioni.

Ecco dunque che ritorna l’invito a godere non solo di un silenzio introspettivo ma anche a sfruttare questa occasione per vedere le cose con lucidità e responsabilità domandandosi prima di tutto “è davvero utile quello che sto pubblicando?”, alimentare stereotipi, non informarsi sulla fonte delle notizie, non favorire la copertura di scenari peggiori di quelli già vissuti, semplificare le riflessioni con voglia di aiutare e non di spaventare, comprendere finalmente che un tono arrogante non avvantaggia nella realtà il ruolo di precettore che tanto si desidera per sentirsi potenti.

Tutto per comprendere prima di ogni altra cosa che l’esistenza umana, la nostra funzione nella collettività, non si basa sul consenso virtuale, utile a favorire solo in apparenza una sensazione di appagamento ma che invece diminuisce le opportunità di confronto costruttivo necessarie per la serenità personale e per edificare un carattere carismatico, risolutivo e volto alla crescita culturale e alla partecipazione attiva.

Talvolta un meme sdrammatizzante e comico è più utile alla collettività di un’analisi politologica sgrammaticata su ciò che il social media idiot di turno ritiene importante da mettere in campo, come un guerriero divino che mostra le risposte che i comuni mortali non conoscono. La comunicazione genera l’assetto su cui si forma l’indole di una collettività influenzando le reazioni fisiche nella vita reale. Noia e supponenza possono creare mostri pericolosi che vanno arginati come pecore raccolte nel recinto dai lupi di una maturità necessaria.

Altrimenti accade che si speculi anche sulla paura, attraverso la recitazione dell’Eterno riposo in tv da parte di politici e presentatrici, attraverso l’effetto perverso di una notizia falsa che rimbalza su milioni di bacheche, attraverso l’indiretta capacità di influenzare la massa, un rischio sottile e tossico in cui partecipano anche laureati e pseudo professionisti culturali socialmente riconosciuti, una trappola in cui è facile cadere.

È molto più difficile riflettere e adeguarsi alla verità con tacito consenso che manifestare con incessante velocità le nostre più profonde frustrazioni che ci vedono, al di fuori del web, incapaci di far sentire la propria voce con considerazioni largamente condivise da chi faccia a faccia può caldeggiare l’utilità di ciò che diciamo.

Sapete perché nel titolo di questo articolo c’è la parola “coronavirus”? Per le statistiche. Perché la morbosità del periodo ha criteri ben precisi e certe volte non conta tanto l’utilità o l’inutilità del contenuto di un testo, conta la fascinazione positiva o negativa apparente che anche solo il titolo di un contenuto può dare.

Ecco quindi che se da un lato in questo caso l’artificio è un invito ad approfondire un argomento, dall’altro ci riporta a un ulteriore dramma insopportabile: la condivisioni di un articolo senza averlo nemmeno letto o peggio ancora, il commentare un articolo senza nemmeno averlo letto tutto o in minima parte, vomitare rabbiosità o consensi per il solo gusto di dire la nostra e alluzzare il proprio ego debole che, in un processo di deperimento della propria soggettività, altro non è che sete di neurotrasmissione di appagamento sotto forma di reactions.

Come ci salviamo dunque dai social media idiots? Li incarceriamo? Impediamo loro il diritto di parola? Niente di tutto ciò. Al di là di un accanimento dai toni soggettivi e ironici che non dona una credibilità scientifica al ragionamento, ciò che davvero potrebbe preservarci è semplicemente maturare la capacità di distinguere il valore di un messaggio cercando di non dare maggiore sostegno alle contaminazioni di chi forse ha solo bisogno di attenzioni.

Amedeo Zeni

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