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Carmine Cerbera, docente precario senza cattedra di Casandrino (Napoli) non ha retto. A 48 anni ha detto basta. Nonostante le notevoli competenze, aveva paura di restare fuori. Già si sentiva fuori. Il tempo di un ultimo quadro: una croce col suo nome. Lui l’arte voleva insegnarla, ma aspettava un incarico come ogni anno scolastico e quest’anno non è arrivato; Carmine l’arte la praticava, restaurava anche e, ferito nell’orgoglio, ha deciso di prendere un’ attrezzo tagliente, che usava per tagliare le tele che dipingeva, e si è tagliata la carotide. Si è suicidato. Un pittore. Un insegnante di disegno e storia dell’arte ma soprattutto: un uomo.

Con sentimenti, dignità. Ma. Un numero nelle maledette graduatorie che decidono se toccherà a te o no, l’incarico. Nuovo giro. Nuovo regalo. Un numero quando, parlando di scuola pubblica,si parla di. Spalmare. Tagliare. Razionalizzare. Mettere in mobilità. Quando finirà questo massacro? Quando finiremo di imbarbarirci per strappare i resti degli ultimi brandelli di carne dall’osso?

Perché sono anni che ormai è partito il massacro nei confronti degli insegnanti precari. Cerbera è stato ricordato anche in un sit-in davanti alla sede del Miur in viale Trastevere. “Il precariato uccide. Precari uniti” era scritto su uno degli striscioni.

Già nel lontano 2006, dalle pagine del Corriere, si faceva l’equazione che essere precario significava essere senza qualità con un’età media alta e il classico rifugio del posto fisso. Ma la scuola non è come credono in molti, un ammortizzatore sociale in cui impiegarsi, un ricovero per bamboccioni.

La scuola è il futuro di un paese, è la libertà di pensiero che una nazione può e deve esprimere per andare avanti. Per costruire il futuro delle nuove generazioni. Per evitare che le menti fuggano via, lasciando dietro di sé il vuoto. L’invecchiamento. la Morte. E invece si alimentano lotte fratricide. Tra insegnanti delle graduatorie e aspiranti nuovi insegnanti. Tra abilitati di concorso e abilitati universitari.

Siamo all’imbarbarimento totale. Quella atroce società prospettata da Orwell nel libro “1984” in cui i prolet, il popolo, annegava nel Gin Vittoria i propri affanni e si lasciava vivere in attesa dei proclami che provenivano dagli schermi. Una barbarie di stato: considerare il popolo una colonna di cifre. Un effetto collaterale da sacrificare allo spread. E togliere tutto. Anche le certezza della precarietà. Uno status drammatico. Un’incertezza costante. In equilibrio instabile.

Ma essere precari non significa essere senza dignità, senza professionalità. Precario è solo un aggettivo. Il sostantivo che lo accompagna è Insegnante. Con la maiuscola. E l’interezza del senso nel drammatico gesto è proprio questo. Perché era un ribasso non più sostenibile: da Insegnante precario a Insegnante disoccupato. L’impossibilità di essere davvero insegnante e non solo una professione scritta sulla carta d’identità.

Monica Capezzuto

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